Il linguaggio dei vegetali

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...E magari, alla fine si converrà con Einstein, che, dopo una vita passata a parlare sia la lingua della carne che la lingua dei vegetali, scrisse: “Vivo senza consumare grassi, senza carne, né pesce, eppure sto bene così. Mi sembra quasi che l'uomo non sia nato per essere carnivoro”.

Vegetarian cuisine in Paradiso Pure.Living
“Der Mensch ist, was er isst“: l’uomo è ciò che mangia.  

L’espressione di Feuerbach è stata estrapolata, manipolata, scolpita nell’armamentario delle frasi pronte all’uso, diventando celebre al punto che risulta difficile non averla mai incontrata prima. Usata e abusata da nutrizionisti, ristoratori, negoziatori, pubblicitari: tutti ci ritroviamo ad essere d’accordo su quel che dice, pochi però si soffermano a riflettere su quel che significa, in tutte le sue sfaccettature.

Siamo ciò che mangiamo perché il cibo è la nostra fonte primaria di sostentamento, quella che ci permette di saltare, di sorridere, di respirare, di essere vivi. Non solo: a seconda di ciò che ingeriamo il nostro corpo ne trarrà più o meno beneficio, rendendosi evidente nel nostro stato di salute, nelle nostre forme, sulla nostra pelle. 


“…Tramite il cibo e il nostro modo di rapportarci ad esso comunichiamo costantemente le nostre emozioni, le nostre idee, il nostro essere, come anche il nostro appartenere”
Ma ciò che mangiamo ci rende chi siamo anche in quanto espressione di uno status, di una cultura, di un’identità. Basti pensare solo a quante volte nel corso della nostra vita, o addirittura della storia, il cibo è stato un medium per comunicare qualcosa, più che un semplice mezzo di sostentamento.

Abbiamo fatto lo sciopero della fame per comunicare la nostra ribellione, o abbiamo impedito ai nostri figli di cenare per fargli comprendere la nostra disapprovazione. Abbiamo cucinato una torta per dire ti amo, o imbandito un lauto pranzo per dire grazie, per festeggiare, per unire, per salutare. Abbiamo assalito i forni perché volevamo un cambiamento sociale, abbiamo acquistato un certo alimento per supportare le ragioni di chi lo produce. Insomma, tramite il cibo e il nostro modo di rapportarci ad esso comunichiamo costantemente le nostre emozioni, le nostre idee, il nostro essere, come anche il nostro appartenere. Per spiegarlo non c’è niente di più vivido che l’immagine del tipico italiano mentre brandisce le armi in una crociata contro il malcapitato straniero che taglia gli spaghetti e li mangia col cucchiaio (speriamo che non incontri mai un mangiatore di pizza con l’ananas: non avrebbe alcuna pietà).

Vegetarian Dessert
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"Sono vegano"

È stupefacente che qualcosa di così semplice ed essenziale sia entrato a pieno titolo nella cultura delle comunità umane, assurgendo a dignità d’arte, fino a intrecciarsi strettamente all’espressione dell’identità degli individui. Stupefacente, ma a volte anche molto pericoloso.

In un bellissimo discorso al TEDxCUNY, Brian Kateman ha brillantemente descritto ciò che accade quando scopriamo che la persona con cui stiamo cenando è vegana. “I am a vegan”: quattro parole in grado di destare più disagio e nervosismo che il classico “Ti devo parlare”. Ed ecco, tra le inutili guerre di questo millennio, che una delle più violente si combatte proprio tra i vegani e i pro-meat (volendo semplificare a solo due compartimenti un fenomeno di ben più ambia portata). Sguardi di disappunto, derisioni velate, scontri per dimostrare una presunta superiorità morale o intellettiva, fino ad arrivare ad aggressioni verbali anche feroci. Tutto semplicemente perché nel carrello della spesa di ognuno ci sono alimenti diversi. O forse perché il nostro essere “vegani” o “pro-meat” è una caratteristica con cui ci identifichiamo, un’etichetta bella grande che ci siamo cuciti addosso e che ci dà la sicurezza di sapere esattamente chi siamo, senza nemmeno rendercene conto.


Sappiamo bene che il cervello umano ha bisogno di compartimentalizzare il mondo per comprenderlo e la nostra mania di distribuire etichette è del tutto innata, inconscia, normale. Ma come ogni cosa, ha il suo lato oscuro. Immaginiamocelo: cosa succederebbe se un sedicente carnivoro andasse a mangiare in un ristorante vegetariano? Impossibile da pensare, non potrebbe mai commettere un tale sacrilegio: quell’etichetta portata con così tanto orgoglio rischierebbe di scucirsi, portandosi via tutti i fili delle proprie certezze e della propria identità. Al prezzo di perdere un’esperienza culinaria, sensoriale, anche personale, oltre che un’importante occasione per far del bene a questo sempre più fragile pianeta. Un’esperienza che senza quell’etichetta avrebbe potuto portare un impatto positivo sull’ambiente e sulla sua vita, senza andare a decostruire la sua essenza, ma anzi, arricchendola.

Shining

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Il linguaggio dei vegetali

Massimo Montanari ha parlato di linguaggio del cibo, paragonandolo a quello verbale, con il suo dizionario (i prodotti di base), la sua morfologia (l’elaborazione dei prodotti), la sua sintassi (il discorso in cui gli alimenti si inseriscono e assumono significato) e la sua retorica (come questi vengono presentati e consumati). Esattamente come quello verbale, non ne esiste uno universale valido per tutti: ogni comunità condivide regole e strutture proprie.

Ricerche a partire dagli anni ’20 fino ad oggi si sono impegnate a mostrare come il linguaggio che ognuno parla influenza il proprio modo di pensare e di comportarsi, fino ad accettare comunemente l’idea che parlare due o più lingue sia fonte di un enorme vantaggio, nonché di un’immensa ricchezza personale.

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Se trasliamo lo stesso concetto al linguaggio del cibo, ci accorgeremo come non solo parlare la lingua della carne non escluda parlare quella dei vegetali, ma addirittura conoscere quest’ultima possa divenire di enorme importanza per la Vita. Vita nel triplice senso di esistenza personale, di convivenza armoniosa con tutte le creature, di rispetto per la terra che calpestiamo e per l’aria che respiriamo.

In un’epoca in cui ogni giorno di più impariamo come siano proprio l’ibridazione e l’unione di fattori eterogenei a far girare il mondo, togliersi di dosso le etichette e imparare a conoscere più linguaggi può davvero fare la differenza su scala mondiale, comunitaria, e individuale.

“Conoscere un'altra lingua significa avere una seconda anima”, sembra proferisse Carlo Magno: aprirsi anche al linguaggio dei vegetali significa avere un’anima più ricca e un mondo più felice.


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Alisia
E se imparassimo qualcosa di inaspettato?

E magari, alla fine si converrà con Einstein, che, dopo una vita passata a parlare sia la lingua della carne che la lingua dei vegetali, scrisse: “Vivo senza consumare grassi, senza carne, né pesce, eppure sto bene così. Mi sembra quasi che l'uomo non sia nato per essere carnivoro”.

Alisia Fioriti


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